Come è cambiata in 50 anni l’immigrazione in Italia?
Come è cambiata in 50 anni l’immigrazione in Italia?
Enrico Pugliese, sociologo che da decenni studia l'immigrazione in Italia, racconta - usando la nostra dashboard - come è cambiata in 50 anni l'immigrazione nel nostro Paese, dai primi arrivi negli anni Sessanta agli sbarchi a Lampedusa di oggi.
«Non trovo sia sbagliato né offensivo l’uso del termine “extracomunitario”. Gli extracomunitari hanno difficoltà d’ingresso, i comunitari no. Trovo che l’ossessione per il termine in questo caso sia sbagliata».
Enrico Pugliese, sociologo, è uno dei principali studiosi d’immigrazione in Italia. Da decenni segue percorsi e traccia mappe degli stranieri che arrivano nel nostro paese per cercare salvezza e lavoro, insomma futuro.
Gli abbiamo mostrato la dashboard di Open Migration dove si segue l’andamento (e il cambiamento) dei vari flussi negli anni e Pugliese ci ha raccontato come è cambiata in 50 anni l’immigrazione in Italia, dai primi arrivi negli anni Sessanta agli sbarchi a Lampedusa degli ultimi anni.
Gli abbiamo mostrato la dashboard di Open Migration dove si segue l’andamento (e il cambiamento) dei vari flussi negli anni e Pugliese ci ha raccontato come è cambiata in 50 anni l’immigrazione in Italia, dai primi arrivi negli anni Sessanta agli sbarchi a Lampedusa degli ultimi anni.
Si può emigrare in Italia oggi?
Bisogna fare una distinzione preliminare. Chi emigra in Italia da paesi neo-comunitari può entrare e uscire senza problemi. E questo incide sui flussi che registriamo. Un romeno può andare e venire senza problemi, può tornare in patria perché ha qualcosa da fare e poi può fare ritorno in Italia. Al contrario, per chi viene da paesi fuori dall’Ue questo è molto più difficile. Più sono rigide le norme, più si stabilizza la migrazione. Un aspetto che modifica anche i numeri che abbiamo a disposizione. Ora abbiamo una situazione per cui è difficile registrarsi una volta arrivati.
E allora cos’è cambiato dal passato?
Tutti hanno sempre parlato male delle sanatorie – e a volte si trova anche qualche immigrato che lo fa – ma invece sono state una benedizione. L’Italia non è stata capace, anzi, non ha voluto trovare dei meccanismi per agevolare l’ingresso regolare. Se ne parlò solo ai tempi del secondo governo Prodi e poi più nulla.
Molti che arrivano in Italia, non si fermano. Siamo diventati un paese poco attrattivo per i migranti oggi?
Non la metterei così. Uno vuole andare dove ci sono i parenti, uno dove c’è più lavoro, uno dove la legislazione sull’immigrazione è più avanzata e più applicata. Tutto qui.
Cosa si dovrebbe fare per regolare l’ingresso dei migranti in Italia?
Per esempio, l’Italia non ha mai voluto prendere in considerazione la proposta di una norma per “ingresso per ricerca di lavoro” né ha mai voluto trovare meccanismi di regolarizzazione in itinere come avveniva quando noi andavamo in Germania 50 o 60 anni fa. Un meccanismo che ho sperimentato anche io quando andai come studente e poi iniziai a lavorare cambiando status. È un passo che anche l’Italia dovrebbe fare per semplificare l’iter burocratico che affligge i migranti.
In questi anni è aumentato il numero dei richiedenti asilo. È diventato un canale legale per giungere in Italia se non si ha diritto ad altri visti?
E così staremmo parlando di un escamotage. E quando gli immigrati fanno qualcosa che non dovrebbero fare allora il rischio è generalizzare e di creare una nuova etichetta negativa e un nuovo stigma. Come per l’altra espressione con cui vengono marchiati gli immigrati: “welfare shopping”. Ovvero gli stranieri andrebbero dove c’è un welfare più conveniente per loro. Ecco, questo è un modo per colpevolizzare gli immigrati. Quindi direi che è possibile che ci sia qualcuno che chiede asilo per emigrare, ma rendiamoci conto che è molto difficile distinguere tra migranti economici e rifugiati.
In Italia, ma non solo, la politica è ferma su questa distinzione tra migranti economici e rifugiati. Qual è la sua opinione?
Vero, si sente di dire anche da personalità molto autorevoli che i rifugiati sarebbero da accogliere e migranti economici da rimpatriare. Ma cosa significa “rimpatriare”? Significa riportare nell’inferno da cui provengono.
Passiamo alla storia dell’immigrazione in Italia. Come è cambiata la composizione nazionale degli arrivi?
La storia delle migrazioni in Italia inizia più di quarant’anni fa. I primi arrivi sono dei tunisini in Puglia e di donne provenienti dai paesi cattolici (sudamericani o africani) che lavorano come cameriere. C’è poi un caso particolare, gli jugoslavi che parteciparono alla ricostruzione del Friuli dopo il terremoto (1976). Nel complesso, un’immigrazione che, in particolare nel comparto del lavoro domestico, era distribuita anche al sud.
Nei primi anni ’80 c’è un cambiamento, con l’arricchimento degli italiani.
Sì, è il periodo in cui nascono professioni come le colf o i venditori ambulanti (che venivano chiamati “vu’ cumpra’”). Per tutti gli anni ’80 arrivano donne sudamericane, filippine e in generale dai paesi cattolici e del Corno d’Africa e i venditori ambulanti dal Senegal e Marocco. I tunisini trovano casa in Sicilia, come pescatori, agricoltori e muratori. Mentre i primi migranti dall’Africa subsahariana andranno a lavorare nei campi. Ma si tratta di piccoli numeri.
Negli anni ’90 che succede?
Dal ’92 si iniziano ad avere dei dati affidabili sul numero delle presenze in Italia. Prima c’erano solo i numeri della polizia che tendeva a sovrastimare gli europei. Ovviamente, tutto cambia con la caduta del Muro. Nel corso dei primi anni ’90 il quadro cambia. Arrivano gli albanesi e i primi, sparutissimi, dall’est Europa. Poi, dalla fine del decennio l’immigrazione si cristianizza e de-islamizza. Cominciano a comparire i primi romeni che poi negli anni Duemila, con l’ingresso nell’Ue, vedranno il picco degli arrivi.
Com’è cambiata l’immigrazione femminile in Italia?
Esiste un rapporto tra domanda e tradizioni culturali. Quella che viene chiamata “job sex segregation”, ovvero una segregazione in base al genere e in base alla nazionalità e alle sue tradizioni culturali. Per esempio, non troviamo se non raramente in Sicilia, donne islamiche dedite al lavoro domestico. Sono perlopiù cristiane, da quando erano cameriere negli anni Settanta a oggi che sono perlopiù badanti.
C’è poi il caso delle ucraine, di cui abbiamo parlato su Open Migration.
Da alcuni paesi, per esempio l’Ucraina, arrivano donne perché soddisfano una domanda di lavoro. Siamo stati costretti da un sentire comune imposto che ci fa pensare che gli immigrati arrivano perché arrivano, spingono per entrare. Le cose stanno invece così: loro spingono per entrare anche perché c’è una domanda di lavoro inevasa in Italia. Quindi se c’è una domanda di lavoro per badanti la risposta è stata: donne, disponibili a viaggiare da sole, ed è così che nasce il flusso delle ucraine.
Che tipo di immigrazione è quella ucraina?
Gli ucraini sono una nazionalità mono-occupazionale e nella quale c’è una certa dose di mobilità sociale. Le figlie dell’ucraine vanno a scuola e all’università. E non possiamo non vedere che questo sia un effetto di quella che era la scolarizzazione di massa nell’URSS e del processo di emancipazione femminile nei paesi dell’est. Si tratta sempre di fatti molecolari, tuttavia rappresentano bene una tendenza delle comunità nazionali. Lo stesso vale in parte anche per la Romania e l’Albania.
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